Mons. Giudici a 75 anni, promotore di un'Economia solidale

Martedì 17 marzo 2015 ore 17
Valori di impresa, dignità del lavoro, fiducia nel futuro
Lectio Magistralis di S.E. Mons. Giovanni Giudici, Vescovo di Pavia
Confindustria Pavia - Via Bernardino da Feltre 6, Pavia

 

La novità dello stile di Francesco è il cambio di un verbo rispetto alla Costituzione apostolica della Curia Romana “Pastor bonus” di Giovanni Paolo II, quella che il Consiglio dei cardinali su indicazioni di Bergoglio deve cambiare. È riferito ai cardinali di Curia che da ora in avanti sono “tenuti” e non più “pregati” a presentare le proprie dimissioni quando compiono 75 anni. La norma era stata introdotta da Paolo VI nel 1966 e aveva suscitato allora molti malumori. Ma Paolo VI chiedeva di presentare “spontaneamente” la rinuncia all’ufficio. Bergoglio adesso ne prevede l’obbligo. Il “rescritto” precisa anche che un vescovo quando compie 75 anni automaticamente decade anche da ogni altro “ufficio a livello nazionale”. Così abbiamo Vescovi che continuano da Emeriti l’attività pastorale senza avere più grandi responsabilità ma sicuramente il loro carisma non diminuisce. È il caso di Bettazzi di Ivrea, di Tettamanzi a Milano, di Canessa a Tortona, di Baggini a Vigevano, e fra poco anche di Mons. Giudici a Pavia. Figure singolari che hanno guidato le loro chiese con una passione indomabile di carità e di intelligenza. In particolare proprio il 6 marzo il vescovo Giudici ha compiuto la canonica età per dare le dimissioni, lasciando nelle mani del Papa la sua permanenza nella diocesi di san Siro. Quello che in questi giorni si sente di poter augurare al Vescovo dimissionario è che le sue profonde intuizioni sia di carità, sia di promozione di una cultura nuova anche nel campo dell’economia. Infatti negli anni della sua permanenza prima a Milano con Martini e poi a Pavia ha ideato Amico Lavoro per dare una definizione di accoglienza ai tanti disoccupati, ha investito sul Compralavoro comprando materialmente 30 mila ore di lavoro da dare a chi preparava il suo curriculum e cercava lavoro nella sua diocesi, ha aperto le porte delle sue chiese per benedire i cooperatori che davano lavoro agli svantaggiati e agli imprenditori che si impegnavano nel solco della dottrina sociale della chiesa. Oggi si presenta ricco della sua esperienza pastorale e sacerdotale agli industriali sulle sfide etiche del mercato perché come scrive Benedetto XVI nella sua enciclica: «Le contraddizioni della crisi economica suggeriscono una riflessione profonda che tenga insieme i temi dell’economia e dell’impresa con la prospettiva etica. Una riflessione sullo sviluppo e sulla centralità del ruolo dell’imprenditore, in rapporto con la società moderna e con la dimensione del lavoro rimane il valore fondante della nostra civiltà. In questo modo la crisi può diventare “occasione di discernimento e nuova progettualità. In questa chiave fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (Caritas in Veritate). In primo luogo, l’esigenza di “sostenere e tutelare al meglio gli interessi facenti capo all’azienda, che dalla crisi sono colpiti: i creditori, i dipendenti, i fornitori». Almeno per l’ordinamento italiano, tale istanza è considerata dominante e per ragioni abbastanza evidenti.

In secondo luogo, “l’esigenza di ricercare, se possibile, la sopravvivenza e la continuità aziendale”. Tale secondo aspetto nasce dalla constatazione che l’impresa è un bene di interesse comune. Per quanto essa sia un bene di proprietà e a gestione privata, per il semplice fatto che persegue obiettivi di interesse e di rilievo generale, quali ad esempio lo sviluppo economico, l’innovazione e l’occupazione, andrebbe tutelata in quanto bene in sé. Ci ricorda Vitale che “L’impresa è come un bosco: per farlo crescere ci vogliono, talora, decenni; per tagliarlo, con i moderni mezzi elettromeccanici, bastano poche ore”. Ecco, allora, che anche “di fronte ad una crisi che non permette all’impresa di far fronte ai suoi impegni, bisogna, accanto alla tutela dei creditori, porre l’esigenza della continuità o comunque sopravvivenza, totale o parziale, dell’azienda, cercando una mediazione tra le due esigenze”. Di fatto, ogni crisi, dalla più superficiale alla più profonda, ci trasmette l’informazione che una data formula imprenditoriale andrebbe cambiata, alcuni aspetti andrebbero rafforzati, mentre qualche ramo andrebbe tagliato. È qui che si definisce il ruolo dell’economista d’impresa, dal quale ci si aspetta che esprima un giudizio competente, profondo, responsabile e, soprattutto, onesto.

Quanto più il giudizio dell’aziendalista sarà corretto, tanto più facilitato sarà il compito del giurista, al quale chiediamo di individuare le vie per realizzare, al meglio, i cambiamenti necessari, consapevoli che l’impresa è una rete perfettibile di interessi talvolta conflittuali che opera in una società aperta e in un contesto economico concorrenziale. Scrive Vitale: “Compito dell’ordinamento giuridico è offrire al giurista gli strumenti utili per ricercare e percorrere la via migliore, per conciliare continuità aziendale (sia pure in una formula talora profondamente mutata) e interessi puntuali dei vari portatori di interessi. La presa di coscienza che l’impresa è un bene in sé, a prescindere dalla sua proprietà, e quindi dall’esigenza di perseguire, ove possibile, la sua sopravvivenza attraverso un processo di risanamento, rappresenta un progresso molto importante del pensiero e dell’ordinamento giuridico”. In definitiva, la crisi di un’impresa che opera in un mercato concorrenziale non comunica necessariamente la morte dell’impresa, ma più realisticamente il fatto che una certa formula imprenditoriale non funziona più e andrebbe modificata, sebbene le modifiche possano essere di varia intensità e assumere una miriade di tipologie: si va dal cambio della proprietà, alla cessione di parti dell’azienda, dalla ristrutturazione dei siti produttivi, alla riformulazione del prodotto, dal cambiamento del management, agli accordi con i creditori per alleggerire il peso del debito, e così via.

In terzo luogo, “l’esigenza di non confondere la necessità di risanamento e continuità aziendale con la cancellazione delle responsabilità”. Come si intuisce, si tratta di un tema molto complesso e delicato. Se assumiamo la prospettiva che fare impresa necessita l’assunzione di un rischio, la propensione alla sfida, la ricerca dell’innovazione, la scoperta e la correzione degli errori (trial and errors), non appare del tutto bizzarra la posizione di Honda, il quale era solito dire che “il vero imprenditore emerge dopo tre fallimenti”. Ad ogni modo, il paradosso di Honda non dovrebbe indurci a desistere dalla necessità che un corretto sistema economico, conforme alla dignità della persona umana, non alimenti l’irresponsabilità e l’impunità degli imprenditori, dei dirigenti e di quanti contribuiscono alla vita di un’azienda. Ribadiamo che “Nella maggior parte dei casi il management che porta l’impresa in crisi ha delle precise responsabilità manageriali per lo più legate al ritardo nel capire ed all’inerzia nell’avviare i cambiamenti necessari se non per evitare almeno per affrontare la burrasca con le vele in posizione adatta per non affondare”.
In altre parole, la responsabilità di coloro che detengono la guida dei processi imprenditoriali appare in tutta evidenza nel modo in cui viene aggredito il cambiamento. Un cambiamento che, se mal compreso e mal gestito, è motivo di crisi e di perdita di redditività. La tempestività, la competenza e la consapevolezza di essere alla guida di uno strumento complesso, conflittuale e perfettibile, finalizzato a contribuire al perseguimento dello sviluppo umano integrale, sono gli attributi della responsabilità sociale dell’imprenditore e del dirigente ispirati ai principi della dottrina sociale della Chiesa. Chi si attardasse nell’aggredire il cambiamento, fosse anche per le migliori intenzioni, commetterebbe un grave errore di inerzia, mettendo in grave pericolo la sopravvivenza di un ente, come appunto l’impresa, il cui fine trascende l’interesse dei singoli operatori che la compongono. Grazie a Vescovi illuminati abbiamo una conoscenza migliore del senso di responsabilità sociale e questo si chiama bene comune e condivisibile per tutti.